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"Voi che vivete sicuri, Nelle vostre tiepide case…”

"Voi che vivete sicuri, Nelle vostre tiepide case…”

Letizia Airos Soria (February 1, 2008)
The main gate at Auschwitz, through which an estimated two million victims of Nazi genocide passed

27 gennaio. L’auditorio del Centro Primo Levi è gremito. Seduta in fondo alla sala respiro un pubblico emozionato, commosso, riflessivo, spesso incredulo.

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"Voi che vivete sicuri, Nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando la sera, Il cibo caldo e visi amici, Considerate se questo è uomo…”,  questi versi  di Primo Levi avrebbero piano piano, insieme ad altri altri scritti dello scrittore,  accompagnato nella mia mente lo svolgimento della serata.


Efficace l’idea di affiancare alla proiezione del film “L’isola delle rose. La tragedia di un paradiso” di Rebecca Samonà con una breve, ma intensa intervista, del giornalista Andrea Fiano a Stella Levi, ex residente rodiana sopravvissuta ad Auswitz. La vicenda degli ebrei di Rodi, deportati dopo l’8 settembre, raccontata nel film prenderà vita, con la testimonianza diretta  di una persona che ha vissuto la vicenda.

Prima dell'intervista, davanti ai nostri occhi, passano 52 intensi minuti di una storia che non si legge facilmente sui libri. Appunti di quotidianità interrotti. La vera forza del documentario è probabilmente nel racconto della vita di tutti i giorni, annullato in pochissimo tempo. Nel corso della proiezione affiora un silenzioso invito: a riflettere ed impegnarci  proprio nella nostra quodianità, soprattutto nelle nostre piccole azioni. Noi che stiamo nelle nostre “tiepide case”.

Il lavoro di Rebecca Samonà è prezioso proprio per questo. Afferra ed interroga il nostro stesso modo di vivere. I piccoli gesti quotidiani, il nostro rapporto con gli altri.

“In ogni gruppo umano esiste una vittima predestinata: uno che porta pena, che tutti deridono, su cui nascono dicerie insulse e malevole, su cui, con misteriosa concordia, tutti scaricano i loro mali umori e il loro desiderio di nuocere.
” ha scritto Primo Levi  (La tregua 1962). In queste parole la descrizione di una dinamica sociale solo apparentemente banale, insidia nascosta da non dimenticare.

“L’isola delle rose. La tragedia di un paradiso” è un documento  che rimanda ad immagini in bianco e nero simili a quelle che spesso abbiamo negli archivi delle nostre case.  Così familiari.  Sullo schermo il racconto di un tempo che fu, che non è ma che potrebbe ancora essere.

Lo spunto è autobiografico. Un viaggio nella memora a Rodi della regista/autrice, incinta della secondogenita, con la propria madre, figlia di un militare italiano internato in Germania (1944-45) e di un’ebrea rodiota che, dopo una vita serena a Rodi viene deportata. Finirà la propria vita ad Auschwitz, come centinaia di ebrei dell’isola.
 
Nel film si racconta, sulle tracce della famiglia materna di parte ebraica, un viaggio che passa da luoghi fisici ai luoghi più nascosti della mente umana.

Lentamente ci accorgiamo di scoprire pagine dimenticate del passato. Storie individuali vissute in prima persona, soprattutto femminili, interviste ad esperti,  rari filmati “Luce” d’archivio, si intrecciano.

E ad un certo punto sembra di passare dalla luce al buio. E’ infatti un’atmofera quasi idilliaca quella che ci viene proposta all’inzio del lungometraggio.  Stride con il resto della vicenda. Spezzoni della propaganda del tempo illustrano Rodi come un vero e proprio paradiso della felicità e della convivenza. Ed è in questo mondo di sostanziale tranquillità che la nonna della regista cresce e vive la sua contrastata storia d’amore con un ufficiale siciliano. Nel 1936, contro il volere dei genitori, decide di scappare per sposarlo. Il successivo riconoscimento da parte della famiglia del matrimonio sembra aver incanalato la vita della giovane donna in una sostanziale serenità e prosperità. Ma non è così.  “Considerate se questa è donna. Senza capelli e senza nome, Senza più forza di ricordare, Vuoti gli occhi e freddo il grembo, Come una rana d’inverno” ancora Primo Levi…

Rebecca e la madre,  settanta anni dopo, visitano quei luoghi della memoria,  assetate di sapere. Interrogano amici di famiglia, leggono i diari del padre internato in Germania, esaminano ogni metro quadrato dei luoghi che hanno accompagnato momenti felici e al tempo stesso atroci. E nel loro percorso della memoria si affaccia un assurdo testimone: l’incredulità.

Piccole cose di tutti i giorni. Pranzi tra i parenti, feste, tavole apparecchiate, cibo,  le lunghe spiaggie di Rodi affollate di sani e bei giovani,  ragazze pronte per un futuro prospero. E dopo una famiglia, tante famiglie, amici, una comunità intera sterminata.

Sembra che la regista voglia suggerire: in quella Rodi potevamo essere un pò tutti noi. Quando ci alziamo, quando andiamo al lavoro, quando prendiamo il sole al mare, quando giochiamo con i nostri bambini, quando viviamo una storia d’amore, quando festeggiamo senza immaginare che in un giorno la follia di altri esseri umani può interrompere tutto.

E nel film la trasmissione dei ricordi, soprattutto attraverso la memoria del genere femminile,  assume un valore simbolico: dalla nonna alla madre, a lei stessa, alla figlia che ha in grembo, per non dimenticare mai.

I sospiri di una signora anziana seduta accanto a me fanno respirare l’intera visione del film che si chiude davanti ad un pubblico attento.  Pochi minuti dopo ecco la voce ferma e al tempo stesso fragile di un’altra donna, Stella Levi. Conduce l’intervista un Andrea Fiano emozionato. Nel racconto della Levi il ricordo di un passato che prende voce, ma anche uno sguardo al presente, per non sbagliare nel futuro.

Tornata a visitare l’isola solo nel ‘67, Stella Levi racconta: “Ho vissuto con i fantasmi di Rodi, sento ancora le voci della gente che conoscevo. Fantasmi che scompaiono e vorrei portare con me”.

“Prima del 38 eravamo tutti uguali. Prima eri un essere un umano, poi no.  L’umiliazione di essere trascinati via da casa tua, nessuno li ha fermati!”.

Già nelle prime parole della signora Levi si percepisce la stessa incredulità quasi bambina che ha percoso il film: “Qualche volta mi chiedo. Sono passata attraverso tutto questo? Ad Auschwitz tu annusi la morte anche nei più soleggiati e caldi giorni di agosto Il cielo diventa grigio. Auschwitz era la morte”.

 “Non è un’intervista facile per me che sono a mia volta figlio di un ebreo sopravvissuto. Ho tante domande, ma al tempo stesso  paura di invadere la privacy”.  Comincia cosi a parlare Andrea Fiano, con grande delicatezza.
Perchè sono riuscite a sopravvivere più le donne? Le chiede: "Non so perchè le donne sembrano essere più forti in questi casi. Forse perchè proteggono la vita. La portano dentro."

“Le mie  memorie sono in italiano e devo tradurre in inglese per parlarvi. Quando sono tornata a Rodi sapevo che avrei trovato solo fantasmi li. I colori, l’odore di quella città non è più lo stesso. Non ci sono ebrei ora. Oggi è scomparsa tutta la comunità, c’è una sinagoga, un museo….Ma è difficile associare i ricordi.  Luoghi di vita ordinaria spesso felici possono diventare punti di brutale orrore. Testimoni silenziosi anche delle peggiori efferratezze umane. La Rodi raggiante, dal mare smeraldo, piena di aranci… le sue case, i suoi uffici, le scuole”.

La signora Levi condivide con tutti a voce alta una domanda  quasi paradossale: “Come potevano essere così eleganti e commettere crimini? La sera, dopo aver dato il gas, si vestivano bene  suonavano la più bella musica”.

 “Mi ricordo che quando arrivammo a Auswitz pensarono che non eravamo ebrei perchè non parlavamo hyddish. Lo hanno capito solo quando ci hanno visto pregare. Siccome parlo il francese sono stata messa con le donne francesi. E’ stata la mia salvezza. Le donne francesi parlavano tedesco e cosi abbiamo potuto seguire gli ordini…”

Lo dice con sicurezza: "Puo accadere ancora? Dafur, Bosnia… Sta accadendo… ‘Ricordati, tu sei stato schiavo in Egitto’. Questo è uno dei più importanti precetti giudaici,  ma dovrebbe valere per tutta l’umanità..”

E alla domanda se prova dell’odio risponde: “No. L’odio è una malattia e non voglio odiare.”

Primo Levi ha scritto:“Chi è stato torturato rimane torturato. Chi ha subìto il tormento non potrà più riambientarsi nel mondo, l'abominio per l'annullamento non si estingue mai” (I sommersi e i salvati, 1986)

Anche nelle parole di Stella Levi, oltre al coraggio e il bisogno-dovere di raccontare, lo sterminio interno di un’esisenza segnata.

“Voi che vivete sicuri, Nelle vostre tiepide case…”
 

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