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All’emigrato illustre

All’emigrato illustre

Peter Carravetta (October 18, 2008)

Quando Romilio, adesso il Sindaco del paese, mi telefona a New York e mi dice, “Pierì, allora, ritorni questa estate? Guarda che il consiglio ha deciso di onorarti con una placca d’argento quale lappanese emigrante illustre!” non seppi di primo acchito cosa rispondere. E’ uno scherzo, mi dissi, anzi, gli dissi...

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   Romilio, da quando facevamo la quarta insieme, era sempre stato affezionato al suo paesello.  Ricordo che prima di trasferirci al nuovo edificio scolastico vicino a Santa Maria, aveva organizzato, tramite l’Azione Cattolica, un festival di poesie in dialetto.

Era una sorta di commiato alla chiazza, il cuore di Lappano all’epoca, dove i ragazzi frequentavano le elementari nelle due aule al pian terreno del Municipio, sul lato est, con quattro abitazioni settecentesche a nord, dove c’era l’unico bar e la cantina, e di fronte, un po’ più elevate per la leggera pendenza, altre case meno belle ma sempre di tre piani; chiudeva a sinistra il retro della grande chiesa di San Giovanni, con un campanile e l’orologio da torre. Avevamo fatto parecchie recite lì, sotto l’occhio della premurosa maestra Teresa, e con gli altri guagliuni partecipato alle tante processioni a seguito di Don Luigi. Ricordo che vedemmo anche Gina Lollobrigida contro le lenzuale bucate di Marietta a’zoppa. Alla sera giocavamo alla mucciaredda: come non ci si rompeva l’osso del collo quando si partiva nell’oscuro da uno degli angoli a tutta birra per arrivare sbattendoci al portone del Municipio, volando sulle selci levigate, non riuscirei a spiegare.


  Per cui quando Romilio, adesso il Sindaco del paese, mi telefona a New York e mi dice, “Pierì, allora, ritorni questa estate? Guarda che il consiglio ha deciso di onorarti con una placca d’argento quale lappanese emigrante illustre!” non seppi di primo acchito cosa rispondere. E’ uno scherzo, mi dissi, anzi, gli dissi. Erano passati oltre quarant’anni da quando ero partito, e benché fossi ritornato diverse volte, era stato per le solite due massimo tre settimane.  “Romilio,” poi ripresi, “ma fissijàti?” “ No, sul serio, sappiamo che tu ami il tuo paese, ehi, ti ricordi quella poesia quando facevamo la quinta? Tu nun sai quant’è bellu su Lappanu / finu a cuannu un t’alluntani de sa chiazza…” Lo interruppi, “aspetta: e chine vide pue avanti u’Chianu,  / te dice si, ca tuttu u’munnu e’ bieddu / ma mai proprio cùmu su paisieddu!” “ Ah, t’ha ricuordi? Hai visto?” disse entusiasto.  E precisai: “e facevamo la quarta,  Romì!”


    Quando arrivai al paese, era di sera, mi aspettava una comitiva di vecchi amici e amiche di scuola, Mario mio compagno di banco, Palmiro, Leopoldo, Bertino, tranne quelli emigrati al Nord o in America, ce n’erano veramente tanti. Dopo i convenevoli e gli aggiornamenti, mi portarono poco fuori il paese, in collina, a un ristorantino sulla vecchia statale per la Sila. “Hai visto com’è cambiato il paese?” “ Eh sì, mi sembra che tutti abbiano un villino, i vicoli sono lastricati, la fontana avant’ a chiazza è scomparsa, ma il Municipio vecchio, tutto restaurato e con quel colore – stavo per dire: osceno – magenta…”  “E’ lì che domani ci sarà la riunione e la presentazione della placca al cittadino lappanese emigrato illustre!”  (Mi domandai che cosa avrebbero potuto leggere di mio…mah, altre carriere, altre vite, era meglio non pensarci. Sapevano solo che insegnavo all’università, che avevo viaggiato, e che insomma, almeno secondo loro, mi ero “fatto onore”).


    La cerimonia si tenne nell’aula dove prima che nascessi legiferava il podestà, sovrastante l’aula in cui frequentai la prima e la terza elementare. Era adibita a sala per la cultura! Mi invitarono a parlare di qualcosa, e parlai dell’emigrazione, del fatto che un terzo del paese aveva parenti e discendenti dispersi per il mondo, e che, guarda che ironia! all’inizio degli anni sessanta i miei genitori, più che cinquantenni, ci portano a NY, loro in nave, io e mio fratello in aereo – segno già che i tempi stavano per cambiare,--  e adesso nel paese abitavano un iracheno, un polacco, un somalo, e un croato, alcuni con famiglia! Poi Romilio parló con grazia e con orgoglio del fatto che la nostra amicizia ci aveva tenuti presenti l’un altro negli anni, tirando fuori alcune lettere che gli avevo scritto negli anni settanta in cui dicevo che non mi sarei mai dimenticato de chiru paisieddu – proprio così, l’avevo scritto in dialetto. La cosa mi sorprese e mi commosse un po’. E poi mi diedero questa placca d’argento con su un rilievo del nuovo Municipio, e sotto scritto “Il Comune di Lappano (CS) / a Peter (Pierino) Carravetta / lappanese emigrante illustre,” montata in una cassetta rivestita di velluto blu. Grande applauso, le foto d’obbligo, poi mi strinsero la mano, mi abbracciarono, e inevitabilmente mi chiesero “ma perché non te ne ritorni, ccà se sta’ de patreternu.” Già. C’era stato un periodo di oltre quindici anni in cui, anche viaggiando per l’Italia, non ci sono proprio andato, al paese, e solo di recente mi sto facendo vivo. Ma per loro, la modernizzazione non ha cambiato gran che, almeno per quelli della mia generazione.


    Dopodomani, mi dissero, andremo a Rose, perché con la Provincia vogliamo onorare, oltre che a te, altri due emigrati, uno del Canadà, l’altro mi sembra è stato a San Francisco 35 anni, gente di successo.” Ah, bene,” dissi, “sapete che a Rose non ci sono mai andato? Non è un bel paese di 3 o 4 mila abitanti, sovrastante Cosenza?” “Sì, è più grande di Lappano, ma bello proprio non direi.” “E dove si terrà questa cerimonia, al municipio?” “ No, in piazza, ci sarà anche un’orchestrina.” “ Peró,” dissi, “allora è una cosa importante. Finalmente, si stanno ricordando che mezza Calabria è stata costretta ad andare via.”  “Eh si, lo sappiamo, si studia anche all’università. Ecco perché li stiamo valutando,” disse Romilio. “Allora ci saranno centinaia di persone.” “ Ma che,” interruppe Mario, “in quella loro piazza sguincia a forma d’imbuto e con una pendenza che devi farla in prima, scherziamo! Guarda dalla finestra, questa si ca se po’ chiamare na chiazza!”


    E pensare che non avevo mai visto la piazza della mia infanzia da una finistra, e dalla prospettiva del vecchio municipio, poi, era veramente spettacolare.
Era veramente bella, un sessanta metri per cinquanta, leggera pendenza verso il municipio d’epoca fascista, tutte le case restaurate con pareti di varia intonacatura e colori brillanti, il grande orologio era stato solo in parte ammodernizzato circa venti anni fa, e ancora suonava l’ora con il medesimo battito,  i martelletti esterni lenti durante la carica, pareva che stessero per fermarsi da un attimo all’altro, e poi scoccare il tocco, con quello squillo e quella eco riconoscibilissimi per me, perché ora, come allora, sembravano far vibrare una profonda fibra dell’animo. Rividi il mio passato. Poiché sentii che mi si stavano per inumidire gli occhi, dissi a Romilio, “ma davvero la piazza di Rose non è bella come questa?” Poggiando la mano affettuosamente sulla mia spalla, disse: Tu nun sai quant’è bellu su Lappanu / finu a cuannu un t’alluntani de sa chiazza.
Ma noi, Romì, gli dissi abbracciandolo, possiamo mai ritornarci, al paese natìo?





 

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